Tira una brutta aria sulla nostra democrazia

22/07/2013 – Tanto rumore per nulla. I diplomatici kazaki  vanno e vengono dai nostri ministeri. E, complici i nostri servizi e le nostre forze dell’ordine, prelevano la moglie e la figlia di un dissidente. Le deportano nel loro Paese. E se ne vanno.

Senza che nulla accada, sul piano politico interno. In fondo nessuno sapeva. E tutto, comunque, è avvenuto all’insaputa del governo. In fondo era già capitato anni fa che i servizi americani, a Milano, prelevassero l’imam Abu Omar, sospettato di terrorismo. Per trasferirlo in Egitto e interrogarlo con metodi convincenti. Poi, i responsabili sono stati condannati. Ma erano già lontani. E quando un agente della Cia, condannato in Italia per quei fatti, è stato fermato a Panama, nei giorni scorsi, è stato immediatamente fatto rientrare negli Usa. Prima ancora che l’Italia perfezionasse la richiesta di estradizione.

Ora, come allora, nessun responsabile  –  istituzionale e politico  –  ha pagato. Si è dimesso. D’altronde, l’operato del governo, nel “caso kazako”, non si presta a critiche. Non l’ha detto solamente il capo del governo, com’è ovvio. Ma anche il presidente della Repubblica. Tutto normale, insomma. A conferma di quella “normalità deviata” che, come ha osservato Stefano Rodotà nei giorni scorsi, su “Repubblica”, regola il nostro sistema politico. D’altra parte, ormai, quasi più nessuno reagisce, salvo una ristretta élite di indignati, tanto definita da non sollevare più sorpresa. Mentre nella società  –  più o meno civile  –  non si colgono segnali di rivoluzione. Grillo e Casaleggio, d’altronde, hanno preconizzato rivolte popolari, nei prossimi mesi. Ma non per una reazione morale. Semmai, per l’impatto della crisi economica. Si tratta di ragioni analoghe a quelle addotte da Enrico Letta per spiegare le sue (non) scelte, compreso il sostegno ad Alfano. L’assenza di alternative a questo governo e a questa maggioranza. La necessità di rispondere agli accordi internazionali, agli imperativi dei mercati. Insomma, all’emergenza esterna.

Così, la “normalità deviata” che ha contaminato le nostre istituzioni e la nostra classe politica tende a degenerare. Diventa “normalità” etica e civile. Stato d’animo generale e generalizzato. Opinione Pubblica, sancita dai sondaggi che ancora vengono condotti, nel torrido clima estivo. (D’altronde, quest’anno la crisi ha ridotto notevolmente la quota di popolazione che va in ferie.) Secondo Ipsos, infatti, la maggioranza degli elettori (oltre il 50%) esprime ancora fiducia nei confronti del governo. Mentre più del 60% approva l’operato di Enrico Letta.

Certo, gran parte dei cittadini  –  secondo il sondaggio  –  avrebbe voluto le dimissioni di Alfano e, ancor più, di Calderoli. Autore “irresponsabile” di insulti razzisti contro la ministra Kyenge. Ma non la crisi di governo. Perché, nonostante tutto: meglio la stabilità. Considerata un “valore in sé”. Che va oltre i comportamenti “deviati” dei leader politici e istituzionali. D’altronde, vent’anni di berlusconismo hanno mitridatizzato l’etica pubblica dei cittadini. Ormai poco sensibili  –  e quasi indifferenti  –  a scandali e processi. Compresi quelli ancora pendenti e imminenti.

È questo il rischio maggiore che vedo, nell’Italia dei nostri tempi. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale. Che ha come principale  –  e quasi unica  –  soluzione la sfiducia politica e istituzionale. Quel clima d’opinione che si traduce nel “non voto”. Oppure viene intercettato, in alcuni momenti, da attori politici, oppure anti-politici, come il M5S. Usati, a loro volta, dagli elettori come veicoli della sfiducia, piuttosto che come garanti delle regole. L’assuefazione all’anormalità politica e istituzionale, d’altronde, alimenta il disincanto se non l’indifferenza verso la democrazia. In particolare, rafforza l’abitudine a fare a meno dei vincoli e delle garanzie che contrassegnano le democrazie rappresentative. A partire dai princìpi. Per primo, il rapporto diretto tra volontà degli elettori, espressa attraverso il voto, e composizione del governo. Tuttavia, da due anni, il Paese è governato da esecutivi sostenuti da maggioranze “non politiche”. Cioè, da larghe intese imposte  –  e, comunque, giustificate  –  dall’emergenza. Dove convergono e coabitano gli antagonisti di sempre. Dove si perdono le distinzioni antiche e recenti. Non solo fra pro e anti-berlusconiani, ma fra destra e sinistra. D’altronde, se da due anni il Pd sta in una maggioranza insieme al centrodestra di Berlusconi, è difficile discutere di destra e sinistra. Non solo nei termini sintetizzati da Norberto Bobbio in un notissimo saggio del 1994. Anno della discesa in campo di Berlusconi. Ma anche in quelli proposti dalla discussione fra Eugenio Scalfari e Michele Serra, su Repubblica, nei giorni scorsi. Il problema è che l’assenza di competizione e di alternativa politica narcotizza il sentimento democratico. Ci abitua a governi “tautologici”: in nome della governabilità. Governi di tutti e dunque di nessuno. Indifferenti ai verdetti elettorali. Alle alternative  –  a cui gli italiani sono poco avvezzi. Visto che nella prima Repubblica, quindi per oltre 45 anni, non c’è stata alternanza. Stesse forze al governo  –  Dc e alleati  –  e all’opposizione  –  Pci e sinistra.

Così, poco a poco, ci si assuefà. A una democrazia-per-così-dire. Non si tratta neppure più della post-democrazia, ridotta al rito elettorale, cui fa riferimento Colin Crouch. Perché, nella post-Italia, descritta da Berselli giusto 10 anni fa, anche il rito elettorale è divenuto indifferente e irrilevante. La polemica politica e fra politici esiste solo nei talk televisivi. La partecipazione dei cittadini diventa poco influente e rilevante. Emerge ed è visibile solo attraverso alcune esplosioni di protesta “localizzate”, su problemi territorialmente definiti (come quella dei No Tav, in Val di Susa). È una democrazia “eccezionale”, dove l’eccezione è la regola. Dove, per l’Opinione Pubblica, l’anormalità diventa normale. Dove i casi di questi giorni, di queste settimane, di questi anni non suscitano scandalo e tanto meno indignazione. Abbassano appena gli indici del consenso al governo e al premier. Senza comprometterli. Si traducono, al massimo, in un’onda anomala del voto o del “non voto”. Mentre gli “anticorpi della democrazia”, come li ha definiti Giovanni Sartori, finiscono liquefatti nel “senso comune”. Assai più diffuso e influente, in Italia, del “senso civico”.

Per questo conviene preoccuparsi. Io, almeno, mi preoccupo. Sulla nostra democrazia rappresentativa: tira una brutta aria.

Autore: Ilvo Diamanti | Fonte: repubblica.it

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