Guida al voto di midterm. Cosa salverei (e cosa no) del modello americano

04/11/2014 – In questi giorni si sente molto parlare delle elezioni americane come modello, e molti dei nostri “guru” del web e di sedicenti consulenti politici ne parlano come se quelle elezioni le conoscessero bene, quasi come se le avessero fatte, anche solo mezza volta.

Qui di seguito alcune tabelle sulle proiezioni dei possibili scenari di quello che potrà avvenire il 4 novembre, quando negli Stati Uniti si svolgeranno le “elezioni di medio termine”, e il quadro di prospettiva verso le presidenziali 2016.

Ogni due anni, infatti, un terzo del Senato e l’intera Camera dei rappresentanti si rinnovano. Generalmente a quelle elezioni vengono abbinate quelle per i governatorati di alcuni Stati – che non significa solo l’elezione del singolo governatore, ma dell’interno “parlamento” di quello Stato, e relative cariche dei “segretari”, ovvero una cosa a metà tra un vero e proprio ministro e un assessore regionale (con più poteri).

In molti “distretti” (quelli che noi chiamiamo collegi elettorali) ci sono state le primarie, mentre in altri ci sono state direttamente le riconferme degli uscenti o in alcuni (pochi) casi nomine dirette da parte del partito, o meglio del “comitato dello stato”.

La partita politica è oltremodo aperta.

              

Per gli Stati. 16 sono quelli democratici, 23 quelli repubblicani. 13 sono “in gioco”, alcuni più o meno orientati di altri. Al momento però tra questi 13, sono almeno 8 quelli che “propendono maggiormente” in direzione repubblicana. L’attenzione dei commentatori è però su due Stati in bilico in particolare. L’Illinois – lo Stato di Obama – che potrebbe vedere la sconfitta del democratico Quinn, e la Florida – che regalò la Casa Bianca a G.W. Bush, e aveva come governatore il fratello Jeb – attualmente governata dal repubblicano Scott, che potrebbe non farcela. Come sempre sarà tutto sul filo di 20/30mila voti, in un periodo in cui la partecipazione sembra sarà modesta e in particolare le partite saranno giocate tutte nei distretti “popolari”, quelli abitati dai ceti che maggiormente hanno risentito della crisi, ma anche della forte ripresa dell’occupazione.

Per il Senato. Sinora il Senato era saldamente in mano democratica: 55 democratici, 2 indipendenti (vicini ai dem) e 45 repubblicani. I senatori sono 100 – due per stato – presieduti dal vicepresidente degli Stati Uniti, che normalmente non vota, ma che in caso di voto avrebbe addirittura un voto “doppio”. È l’unico anello di congiunzione tra esecutivo e legislativo, perché nessun senatore o congressista (deputato) può essere membro dell’esecutivo (quella che si chiama separazione piena dei poteri – Kerry ad esempio si dimise da Senatore per diventare Segretario di Stato). La partita ad oggi sembra essere 52 a 48 in favore dei repubblicani, con tre seggi soli incerti (tra i 33 per cui si vota) che potrebbero spostare la maggioranza.

Per il Congresso. Qui la battaglia è casa per casa, ed è l’unico momento in cui, distretto per distretto, può davvero accadere di tutto. Ogni distretto raggiunge un massimo di 600mila abitanti, ovvero circa 300mila elettori [sono 435 i deputati, su una popolazione di circa 316milioni di abitanti di cui circa 140milioni hanno votato alle presideziali – che sono le elezioni più partecipate in assoluto]. Di questi, votano effettivamente meno di 150mila (normalmente sulla scheda si presentano anche dieci candidati, e per essere eletto un deputato raccoglie circa 60mila preferenze). Normalmente alle primarie per la scelta dei candidati votano circa 20mila elettori per partito (ma anche meno) tra quelli iscritti nelle liste elettorali, questo fa si che il rapporto sia diretto, disintermediato, immediato tra eletto ed elettore – ed anche costante visto che ogni due anni si rivota. Una campagna costa tra i 300mila e 2milioni di dollari (primarie incluse – il che significa che ogni congressista dovrà “raccogliere fondi” durante il suo mandato per almeno altrettanti dollari se vuole essere rieletto, oltre a lavorare bene per il suo collegio).

L’attuale congresso è composto da 199 deputati democratici e 233 repubblicani (3 seggi sono vacanti e verranno compensati in questa tornata elettorale). Stando così le cose, con micro variazioni negli ultimi sei anni, il Presidente, ogni volta che ha voluto davvero fare approvare un provvedimento, ha dovuto “mediare” o “acquisire” l’assenza, l’astensione o il voto favorevole di almeno 20 parlamentari. Ogni singola volta. Parlamentari che “hanno chiesto qualcosa in cambio”, per il proprio collegio o come modifica del provvedimento legislativo, consolidando così la propria maggioranza repubblicana. La maggioranza è 218 seggi e oggi sono 165 i deputati democratici con “la sedia salva” (safe seat) e 208 quelli repubblicani. Considerando le “maggiori probabilità” tra gli altri distretti meno certi, i numeri sembrano chiudersi a 188 democratici e 230 repubblicani, con 17 seggi “troppo indecisi per essere previsti come assegnati” (too close to close).

Cosa cambia il 5 novembre. Tutto, e niente. Se questi sono i numeri la politica americana, almeno nella sua declinazione quotidiana, non subirà variazioni di rilievo. A patto che i democratici in qualche modo conservino la maggioranza in Senato (anche solo di un voto, e questa pare essere la vera sfida). E che non perdano troppo alla Camera. E che tengano gli Stati maggiori (se conquistassero anche la Florida sarebbe epocale).

E tuttavia, la vera politica di una presidenza la si fa negli ultimi due anni su otto, perché si hanno “le mani libere” dalla macchina elettorale e non ci saranno più elezioni da qui a fine mandato. La firma vera ai suoi otto anni Obama la metterà dal 5 novembre. E certamente non avere dalla sua il parlamento conta e rallenta e limita. Peggio se non dovesse avere nemmeno il Senato. Peggio ancora se il voto popolare, in termini di voti “assoluti” dovesse minare la sua popolarità.

Ma queste elezioni sono anche il punto da cui di fatto partono le elezioni presidenziali 2016.

Molti i nomi in corsa, anche se a noi “non arrivano”.

Al momento i nomi “forti” sono – in ordine di gradimento interno – per i democratici Hillary Clinton, vincente con il 64% delle preferenze (secondo i sondaggi unica vincente contro ogni altro candidato repubblicano), Joe Biden al 12% (in lista perché vicepresidente), Elizabeth Warren al 9% (molto solida “a sinistra”, grande vantaggio per le primarie, ma che rischia di essere un punto debole alle elezioni generali) e Andrew Cuomo (figlio di Mario Cuomo) al 5%.

Per i repubblicani i candidati potenziali sono Jeb Bush, Chris Christie, Ted Cruz,Bobby Jindal, Rand Paul, Rick Perry, Marco Rubio, Paul Ryan. In larga parte si tratta dei soliti wasp (white anglosaxon protestant): tutti sono dati tra il 9 e il 12% (tranne Jindal al 4%). Il che significa che ancora non c’è nessuna chiara indicazioni su quale sarà la sfida tra i repubblicani, anche se solo Jeb Bush – secondo i sondaggi – avrebbe qualche chance in una sfida vera con la Clinton.

Ed ecco perché da queste elezioni, dalla partita dei governatorati, dalle sfide al Senato, certamente uscirà qualcuno che – come avvenne nel 2006 con Obama che riconquistò il secondo collegio Illinois e portò la maggioranza al Senato – potrà correre, per ciascuna delle due parti, semmai come outsider in questo scenario di primarie.

Qualche esempio da tenere d’occhio: per i democratici Joe Manchin (West Virginia), Martin O’Malley (Maryland), Deval Patrick (Massachusetts), Jim Webb (Virginia), e per i repubblicani Marsha Blackburn (Tennessee), l’ambasciatore presso l’ONU John Bolton (Maryland), Jan Brewer (Arizona), Scott Brown (Massachusetts), Ben Carson (Maryland), Mike Huckabee (Florida)… tutti hanno già da almeno un anno avviato un proprio “PAC”.

Si tratta dei “political action commitee” ovvero veri e propri comitati che coordinano un’azione attorno a una figura politica; think-tank, programmi, lobby, raccolte fondi, comunicazione, stampa, azione di coordinamento con altri candidati ad altre cariche che possono “un domani appoggiare” una determinata candidatura. Sono le “lobby che difendono l’interesse di un candidato”, e da lì si parte per le cariche maggiori. Anche per mettere a disposizione – e far pesare – il peso della propria organizzazione in caso di appoggio esterno ad altre candidature.

Questa la situazione, queste le considerazioni (mie, personali), allegati gli spotlight su queste elezioni, con i numeri e le previsioni e gli highlight sui sondaggi di possibili spostamenti. Fare le elezioni lì, entrare in quel sistema, estremamente veloce e adrenalinico, in cui si spostano davvero centinaia di persone ogni due anni, e in cui “tutto può cambiare” e in cui “ogni voto conta”, è un’esperienza bella, affascinante, anche per chi ne cura solo la “strategia generale” che poi è quella che serve a orientare centinaia e qualche volta migliaia di volontari.

Poi leggi chilometri di articoli della nostra politica che si spaccia per quella, e chiunque che fa esempi, assiomi, accostamenti, perifrasi, e mostra come modelli cose di cui non sa esattamente nulla. (E io vorrei vederli a capirci davvero qualcosa di questi scenari, o di scenari similmente complessi).

Non che un modello sia migliore di un altro. Io salverei il rapporto con l’elettorato, le primarie sempre, i Pac pubblici, i finanziamenti trasparenti, i volontari e i militanti, le sessioni stampa coi blogger, le discussioni organizzative in rete, i brainstorming, le idee bizzarre, la voglia di partecipare. Di quel modello non terrei il rapporto troppo stringente coi finanziatori, il bisogno di raccogliere sempre e comunque un mare di denaro se no non puoi fare politica, e purtroppo vedo che qualcuno vorrebbe quel modello, con questo limite, importato anche da noi.

Autore: Michele Di Salvo | Fonte: huffingtonpost.it

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